Smartphone, intelligenza artificiale, Internet of Things, blockchain, realtà virtuale e aumentata, fabbricazione digitale sono la confederazione di tecnologie che ci porterà alla società post-umana? Se lo chiede Adam Greenfield, urbanista e scrittore, nel suo libro “ Tecnologie radicali: Il progetto della vita quotidiana” (Einaudi, 2017).
Sembra di sì, perché già ora
la tecnologia dell’informazione digitale in rete è diventata la modalità dominante attraverso la quale facciamo esperienza del quotidiano.
Questa risposta pone altre interrogativi, di natura economica, politica, sociale.
Sensori raccogli-dati, processi che elaborano queste informazioni e algoritmi che individuano modelli suggerendo o prendendo decisioni stanno operando una colonizzazione sempre più pervasiva del nostro spazio; questo implica che noi deleghiamo scelte e responsabilità non tanto alle macchine o ai software ma a chi le controlla, grandi aziende, unicorni e corporazioni sovranazionali.
Lo sguardo di Greenfield è preoccupato ma non prevenuto.
Il suo non è un attacco generalizzato al mondo tecnologico ma un ragionamento critico sui percorsi intrapresi dalla società sotto la spinta delle innovazioni digitali.
Prendiamo la realtà aumentata. Si prefigura un’abbandono della stessa idea di spazio pubblico condiviso. Greenfield scrive, da buon urbanista:
sostituire questo spazio condiviso con milioni di frammenti di realtà aumentate individuali e reciprocamente incompatibili significa rinunciare in toto al presupposto secondo cui abitiamo pur sempre il medesimo mondo — rinuncia che trovo estremamente dannosa per qualsiasi progetto urbano piú generale.
La prevalenza dell’automazione può produrre regole che al momento possono sembrare assurde, se non ci si sofferma a riflettere. Mi ha colpito in particolare la previsione che tra qualche anno guidare manualmente un’auto diventerà probabilmente illegale: non così assurdo, sicuramente più sicuro.
Le prospettive legata allo sviluppo delle blockchain sembrano ancora più fosche. Questa tecnologia — la più difficile da comprendere secondo l’autore – è nata in un contesto anarco-capitalista e funzionalità come gli smart contracts sembrano configurare
la possibilità di fondare un’economia transumana nella quale persone, macchine, organizzazioni e altre entità potessero concludere accordi altrettanto vincolanti quanto quelli fatti a partire dal corpus legislativo di uno stato, o anche di piú. […] la garanzia di un contratto capace di auto-eseguirsi, pubblico e verificabile, potrebbe tutelare il lavoro precario in questi tempi di flessibilità compulsiva. Ma in realtà gli smart contracts sono stati concepiti per operare proprio nel quadro di un mercato libero, globale, in rete, nel quale ogni singolo lavoratore atomizzato deve fare la propria offerta per ottenere un lavoro, come in un’asta o una gara di appalto.
Ma si intravedono anche possibili utilizzi meno distopici, per esempio utilizzando le blockchain e il modello DAO ( Decentralized Autonomous Organization) in una cooperativa, “senza fare troppa violenza concettuale ai principî sui quali è fondata”.
Controllo, modelli di business, passività: gli output che provengono da dati e strumenti possono creare distorsioni a quello che, finora, è considerata la natura umana al suo meglio, attiva, creativa, libera.
Greenfield si chiede alla fine:
possiamo praticare una politica diversa con queste tecnologie? Possiamo usarle in modi che non si limitino a riprodurre organizzazioni di potere fin troppo familiari?
Libro intriso di pensiero critico (che non significa negativo), non adatto ai tecno-entusiasti acritici; leggendolo si impara, si riflette, si confronta il pensiero dell’autore con il proprio e, anche quando non si è d’accordo con le sue tesi, si apprezza l’onestà intellettuale. Questa la differenza con i Morozov, i Carr e alcuni epigoni nostrani.