Originariamente pubblicato su Medium.
Sul sito de “La Repubblica” sono apparsi un articolo e un post con risposte opposte alla domanda nata dall’ennesima sparata di Donald Trump: si può chiudere Internet?
Federico Rampini, giornalista non certo a digiuno di tematiche legate al digitale sostiene che sì, si può e si fa, chiudendo siti o profili, erigendo “grandi muraglie” che filtrino e blocchino i dati (come in Cina), intercettando contenuti come quelli a sfondo pedopornografico.
Arturo Di Corinto, esperto di nuove tecnologie, afferma che è impossibile una chiusura totale a causa della natura stessa di Internet, una rete di reti progettata fin dall’inizio per garantire che il flusso di dati non possa venire interrotto anche se vengono “spenti” alcuni nodi. Questo sia per la sua tecnologia base del packet switching (o commutazione di pacchetto) sia per la multicanalità che la contraddistingue (cavi principali e secondari, satelliti, ponti radio ecc.). Inoltre, ammettendo che si possa “bloccare” Internet, le conseguenze economiche sarebbero disastrose.
Chi ha ragione? Io penso che occorra capire bene cosa si intenda per “Internet”, un termine che ha una sua connotazione tecnica e storica alla quale si sono aggiunti, negli anni, altri livelli di significato, più sfumati, a volte imprecisi. Per esempio, è comune identificare Internet con il Web. Ma quest’ultimo è un sott’insieme del primo, caratterizzato dal protocollo Http. Quando navighiamo con il nostro browser sul laptop, sul tablet o sullo smartphone siamo sul Web, quando usiamo l’email o l’FTP ne siamo al di fuori e utilizziamo altri protocolli di trasmissione dati Internet.
Ho la sensazione che Rampini si riferisca in particolare al web quando si dichiara convinto della possibilità di chiudere Internet. Ma anche il web è in realtà scomponibile in più livelli, deep web e dark web come spiegato in questo post. La possibilità di usare software di anonimizzazione come Tor o altre tecnologie ancor più sofisticate permette anche in situazioni come quelle cinesi di poter bypassare vincoli e restrizioni. Certo, queste possibilità non sono facilmente accessibili o utilizzabili dalla gran parte degli utenti ma comunque garantiscono un’apertura e una continuità tra l’Internet globale e quelle locali eventualmente sottoposte a controlli.
Rampini ha ragione quando descrive Internet non come una rete unica, ma come un’insieme di reti nazionali, molte inserite nel flusso globale di informazioni, altre meno porose (ma non impermabili) a questo flusso.
La diversità delle varie reti non ha come elemento principale la loro “chiusura” ma modelli di utilizzo e sviluppo derivanti dai vari contesti sociali, politici ed economici dei vari territori; la stessa Cina che, diciamo, non applica il principio di neutralità della rete, può essere vista come fautrice di una rete adattata alle esigenze reali del suo governo prima e dei suoi cittadini poi.
Ma, paradossalmente, questa eterogeneità preclude la possibilità di “spegnere” Internet; come scrive Frédéric Martel nel suo “Smart. Inchiesta sulle reti.” (Feltrinelli, 2015):
internet è territorializzata attraverso interazioni globali
Altre due considerazioni. La prima riguarda il risvolto economico. Non c’è solo l’esempio dell’ Internet of Things evocato da De Corinto. Le smart cities sono/saranno possibili grazie alle connessioni internet e muoveranno un giro di affari stimato in 2.000 miliardi di dollari (fonte Arthur D. Little). L’intera sharing economy – fatturato di 335 miliardi di dollari previsto nel 2025(fonte PricewaterhouseCoopers) – è strettamente legata alla presenza delle piattaforme abilitanti in rete e delle app che veicolano i dati attraverso la rete mobile. Le stesse economie emergenti, o con un termine più corretto quelle in forte crescita, hanno come volano proprio l’insieme di tecnologie della comunicazione legate a Internet, in particolare negli ambiti sintetizzati dall’acronimo SMAC (Social media, Mobile, Analytics, Clouds).
Non solo non si può chiudere Internet, non conviene (anche a un miliardario iper-reazionario come Trump).
La seconda considerazione prende le mosse da quel che è avvenuto con l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Questa nuova tecnologia ha rapidamente aumentato sia la velocità di diffusione delle informazioni che l’audience, favorendo la circolazione di nuove idee e il processo di democratizzazione del sapere. E questo ha spaventato i governi, in particolare le monarchie europee. Grande preoccupazione causarono, per esempio, l’apparizione in Inghilterra nei primi decenni del ‘600 dei coranto, fogli unici con una selezione di articoli prima con uno stile neutro come le moderne agenzie di stampa ma poi sempre più indirizzati verso la polemica sociale e politica. Il re e il governo temevano che questi fogli fossero utilizzati per veicolare idee sovversive e rivoluzionarie (avevano ragione, dal loro punto di vista…) ma anche intellettuali come il commediografo Ben Jonson ritenevano che
fosse pericoloso il maggiore accesso alle notizie da parte della gente comune, perché la stampa permetteva a chiacchiere e falsità di diffondersi in fretta , causando instabilità politica e sociale. (da “I tweet di Cicerone. I primi 2000 anni dei social media” di Tom Standage, Codice Edizioni, 2015)
Il re Carlo I fece bandire i coranto ma tutti si resero conto che questo provvedimento avrebbe avuto vita breve, tanta era la forza della stampa. La profezia si realizzò dopo qualche anno, con la nascita di molti altri tipi di pubblicazione antenati del giornalismo moderno.
Questo dimostra come tentare di bloccare una tecnologia emergente, tanto più nel campo della comunicazione, sia impresa vana e inutile anche rispetto alle ragioni alla base del tentativo, in questo caso la lotta al terrorismo. Oltre che rendere il lavoro più difficile ai servizi di intelligence ci si priverebbe di uno strumento strategico per combattere la battaglia sul piano comunicativo e culturale.