Originariamente postato su Medium.
Per più di due mesi non ho postato nulla sul mio profilo Facebook. Ho messo solo qualche like in questo periodo. L’esperimento consisteva nell’osservare se e quando qualcuno si fosse accorto dell’assenza. In teoria avrei anche potuto essere morto.
Nessuno se n’è accorto. Era un risultato atteso.
Esclusi i pochissimi contatti che hanno visto i miei like o la mia attività su Twitter e LinkedIn, per gli altri avevo sostanzialmente cessato di esistere, senza un perché, senza un accenno di interesse. In pratica, ero (siamo) tenuti in vita (online) da una notifica.
Alcune considerazioni.
La rete sociale online è molto fragile. Se non si ha una vita fatta di contatti personali, telefonici o comunque attraverso canali di comunicazione più diretta (per esempio sistemi di instant messaging come Whatsapp) il nostro “essere digitale” si rivela fatuo, cioè privo di consistenza.
Nei social network come Facebook la presenza costante, anche di anni, non preserva la memoria di noi; preserva le nostre “memorie” ma non il nostro ricordo, anche occasionale.
Le solitudini possono essere alleviate dai social a patto di forzare, attraverso un loro continuo utilizzo, la nostra visibilità.
Questo non è dissimile da ciò che accadeva o accade tuttora nel contesto sociale classico: la prova della nostra esistenza in vita è a nostro carico.
Tuttavia le cerchie digitali, anche quelle più a noi vicine, possono amplificare la sensazione di isolamento, anche se questo è, in parte, auto-imposto.
C’è un altro aspetto che risalta. Sembra più difficile reinserirsi nel flusso online che in quello offline. Essere “fuori dal giro” ha le sue conseguenze sempre e dovunque. Ma nel dominio digitale, forse proprio perché sfuma la differenza tra noi e il nostro evanescente doppelgänger, recuperare sostanza, voce e identità risulta maggiormente arduo.