Questo post è stato originariamente pubblicato su Pinguino Mag.
Dichiara Tiziano Ferro in un’intervista rilasciata a Maurizio Crosetti su “la Repubblica”:
“Molti vivono su Twitter e su Facebook come se quella fosse la vita reale, litigano per piccolezze, sfogano frustrazioni profonde, anche patologiche, svelano dolori, lutti, la necessità di un commiato. […] E poi, i social sono anche il rifugio di chi non ha niente da fare. Perché chi ha da fare, fa. (ndr: Ohibò!)”
Prosegue dicendo, tra l’altro, che il suo profilo Twitter lo gestiscono i suoi collaboratori.
La rete è un territorio complesso, articolato, dalle mille sfaccettature; è uno spazio nuovo (un infante ai primi vagiti), un non luogo con caratteristiche proprie ma anche con tutte le dinamiche sociali dei luoghi fisici abituali, pubblici e privati, che si intersecano e si fondono. Ricco, sia nel bene che nel male, di umanità che, a dispetto di paventate dittature di algoritmi, “gioca” e sperimenta le nuove possibilità di comunicazione e interazione.
La vita online è reale, come lo è una conversazione al telefono, perché ogni azione, anche la più semplice come mettere un “like”, deriva da considerazioni consce e inconsce centrate sul nostro essere e sul nostro rapporto con le reti sociali di cui facciamo parte. E ogni azione ha riflessi sulla vita offline. C’è chi ha più consapevolezza di questa stretta connessione, anzi compenetrazione, tra i due reami e chi ne ha meno.
Ho la sensazione che scoprire improvvisamente da chi siamo circondati ci sorprende e, spesso, ci sgomenta. Prima le persone che incontravamo al bar, sui mezzi pubblici, al lavoro, in palestra erano appena più che figure di contorno, definite da una o poche caratteristiche: il simpaticone compagno di viaggio sull’autobus, il polemico della pausa mensa, la dolce cassiera del supermercato. Ora, direttamente o indirettamente, li conosciamo più in profondità. Anche i nostri amici si rivelano con maggiore definizione attraverso il flusso di coscienza esplicito veicolato dalla rete. I loro pensieri ci vengono svelati, e, devo ammetterlo, molte volte fanno paura: non solo per la loro carica di violenza inaspettata ma per la loro ingenuità, per la loro superficialità, la loro ottusità. Ma possono sorprenderci anche per la dolcezza, la sensibilità, la compassione, l’indignazione per le ingiustizie, la sofferenza per i dolori altrui.
Tutto ciò che di brutto (e di bello) osserviamo attraverso gli schermi dei nostri devices esisteva anche prima, nascosto dalle convenzioni sociali e dalle quattro mura di casa; ciò che si celava dietro le maschere appariva di rado, in maniera fugace ed era più facile non darci peso.
La necessità per alcuni di raccontare la propria vita quasi istante per istante non è una novità, basta imbattersi nelle interminabili conversazioni che avvengono intorno a noi: personalmente l’ho sempre interpretate come una sorta di “horror vacui”, paura del silenzio e di ascoltare i propri pensieri ma, ripeto, i social hanno semplicemente facilitato e aumentato la platea a disposizione per questi monologhi esteriori .
Dire che i social sono il rifugio di chi non ha niente da fare, come afferma Ferro, oltre che essere terribilmente snob, rivela una visione assai ristretta proprio della vita reale di milioni di persone, dell’evoluzione della società oltre che una propensione reazionaria. Mi ricorda quella vecchia battuta: “Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna.” Sgradevole, no?
“Abitare la rete” è un’espressione che mi piace. Significa che la rete è una delle città invisibili di Calvino; non ha case, uffici, vie, piazze di mattoni e cemento armato ma ha case, uffici, vie, piazze. Se si vuole, la si può visitare o no, si può decidere di restarci ad abitare o meno ma bisogna imparare a rispettarla, da fuori e da dentro. Come tutte le città ha le sue dinamiche, le sue attrazioni, i suoi quartieri malfamati, cittadini esemplari e delinquenti, opportunità e criticità: ma solo frequentandola e conoscendola si può contribuire a migliorarla.
Come scrive Giovanni Boccia Artieri – uno degli studiosi più lucidi e pacati del mondo della rete – commentando la querelle “imbecilli” scatenata dalle parole di Umberto Eco:
Condurre l’opinione pubblica lungo le strade di questo dibattito polarizzante, costruire un immaginario della rete come un territorio di imbecilli o di saccenti difensori a prescindere […] forse è una via che dovremmo smettere di percorrere.
Parliamone, quindi, di questo vivere connessi, del cambiamento dei nostri costumi, di come la rivoluzione digitale in atto pervada ambiti della nostra scuola, del lavoro e dell’intrattenimento… Ma evitiamo gli scontri di civiltà. O i vaticini. O di spacciare opinioni per fatti. Anche quelle dei guru della comunicazione. Finanziamo più ricerca. Costruiamo occasioni pubbliche per confrontarci su realtà analizzate e non su impressioni. Basta col chiedere e dare le nostre opinioni sul “popolo del web”.