Riflessioni

Conversazione con Angelo Rindone (Produzioni dal Basso) – Seconda parte

 

CrowdRiprendiamo la conversazione con Angelo Rindone di Produzioni dal Basso sui temi del crowdfunding (qui la prima parte).

 

Negli ultimi tempi si stanno diffondendo alcuni rilievi critici al crowdfunding; se la discussione sull’equity crowdfunding – rischi per imprenditori e investitori – è particolarmente vivace negli States qui in Italia la discussione sembra muoversi verso un altro aspetto, non legato all’equity. Una delle critiche – se ne è parlato un annetto fa qui sul Sole 24 Ore e più recentemente in un post di Giulio Cavalli) è che non conterebbe la qualità dei progetti – soprattutto di quelli in ambito culturale e sociale – ma solo la capacità di fare “marketing” (specialmente online) dei proponenti. 

Progetti sperimentali, fuori dagli schemi o che parlano di tematiche difficili e sgradevoli non sarebbero apprezzati e quindi finanziati da un Rete sempre più omologata e mainstream (anche lei?). Personalmente non sono d’accordo, anzi penso che il crowdfunding sia uno strumento in più (e particolarmente indicato) per progetti di confine, visionari e non necessariamente popolari. 

Certo, occorre raccontare se stessi e la propria idea, condividerla, accettare il confronto e le critiche anche “ex ante”, raccogliere interesse; ma ogni forma di sostegno e di coinvolgimento su un progetto (artistico, sociale, industriale ma anche religioso o politico) richiede non solo passione e slancio “ideali” ma anche duro lavoro e uno sforzo di comunicazione utilizzando gli strumenti e le modalità che il nostro tempo mette a disposizione. 

Tu cosa ne pensi?

La questione è tutt’altro che semplice, per niente banale e alza di un po’ l’asticella della discussione sul crowdfunding che si sta facendo un po’ noiosa e ripetitiva.

Di cosa di tratta?

Dunque: il crowdfunding per progetti culturali, pur con tutte le buone intenzioni da cui è mosso e di cui nessuno dubita, porterebbe con se alcune istanze “pericolose” e che alcuni intellettuali, artisti o osservatori del mondo delle cultura cominciano a far emergere…

Ecco alcuni argomenti:

1 – Con il crowdfunding gli artisti, per garantirsi l’accettazione da parte della crowd, saranno costretti a fare progetti facili, ruffiani, comprensibili e non sperimentali. Insomma visto che a finanziare è il pubblico chi propone un progetto artistico in crowdfunding dovrà in qualche modo subirne il diktat di gusto.

2 – L’approccio di comunicazione, marketing e reputazione come parametri vincenti nel crowdfunding porterà l’arena culturale ad assomigliare ad un grande gioco social in stile talent.

Che dire?

Sono affermazioni di buon senso ma parlare di queste cose pensando solo al crowdfunding è una imprecisione che non permette di fotografare e quindi comprendere il fenomeno nel suo insieme. Il rischio è di fare quello che stanno facendo i tassisti nella loro battaglia contro Uber.

I nuovi strumenti di disintermediazione (o meglio di re-intermediazione) e di condivisione digitale stanno cambiando radicalmente i rapporti di forza. Vivendo questa trasformazione in “diretta” ci sono certamente delle cose che ci sfuggono ma mi pare che il centro della questione stia nel fatto che le persone si possano scambiare informazioni digitali con la sola mediazione dell’accesso tecnologico, da qui in poi le sovrastrutture e le verticalizzazioni portate dai social network prima e dalle crowd-economy adesso, rendono semplicemente il processo più chiaro, più veloce e irreversibile.

Prendersela con gli embrionali vagiti di democratizzazione economica dal basso è abbastanza facile, molto più difficile parlare dei modelli di business come Spotify o Netflix che (nei fatti) radono economicamente al suolo un intera generazione di musicisti, registi… sintomatico un post sul blog di Antonio Tombolini (Simplicissimus) che titola: LA LEGGE UNIVERSALE DEI CONTENUTI DIGITALI: IL CONTENUTO È GRATIS. E ADESSO COME SI FA e chiude provocatoriamente (ma non troppo) scrivendo “Se vuoi fare qualche soldo coi contenuti digitali, concentrati sul packaging, e non sul contenuto.

Il concetto stesso di crowd, se letto come “folla”, è fuorviante. Il tramonto dei mercati di massa apre la strada a masse di mercati in cui le persone transitano in modo veloce e spesso obbligatoriamente poco approfondito e a tal proposito uno sguardo a quello che succede nei fab-lab di mezzo mondo può chiarire ulteriormente le idee di come attraverso open design e stampanti 3d si stanno ridisegnando gli scenari della produzione prossima ventura.

Tornando alla cultura…

Di fronte a questo mi sembra che salti il concetto stesso di cultura alta vs cultura bassa, saltano i parametri con cui concepiamo la qualità, saltano ovviamente gran parte dei mediatori culturali e forse salta anche il l’idea stessa che abbiamo di artista.

Posso poi dire, in base alla mia esperienza, che in crowdfunding è facile che vivano (e bene) progetti trasversali, non mainstream, idee poco “potabili” per il mass market, quindi paradossalmente la “dittatura del telespettatore” (come l’ha definita Stefano Pistolini nel suo articolo sul Sole 24ore) ci restituisce uno scenario di contenuti completamente nuovi oppure che ci sono sempre stati ma che fino a qualche anno fa erano semplicemente sommersi e non visibili.

Scriveva Pier Paolo Pasolini 40 anni fa:

[themify_quote]Noi intellettuali tendiamo sempre a identificare la «cultura» con la nostra cultura e l’ideologia con la nostra ideologia. questo significa 1) che non usiamo la parola «cultura» nel senso scientifico 2) che esprimiamo con questo, un certo insopprimibile razzismo verso coloro che vivono, appunto, un’altra cultura.[/themify_quote]

Ecco, qui parliamo esattamente di un’altra cultura.