english version on The Startup
La tecnologia blockchain sta vivendo la sua “età dell’oro”: un’era mitica, in cui tutto è possibile, tutto realizzabile, tutto profittevole. E’ un destino comune, nel campo delle innovazioni. Ma all’entusiasmo iniziale si deve affiancare prima o poi una certa dose di pragmatismo.
Partiamo dalla terminologia. Come osserva Adrianne Jeffries in un lucido articolo su The Verge il termine “blockchain” soffre di un’ambiguità ancora non risolta: le definizioni sono molte, ognuna si concentra su alcuni aspetti e in alcuni casi si “adatta” al contesto per risultare più accattivante.
Avevo già raccolto alcune di queste definizioni, tentando anche di darne una mia. Parlare di “protocollo della fiducia” come Don Tapscott è evidentemente un claim, mentre descrizioni più precise catturano, come si diceva, solo una parte della storia. Per esempio Mike Orcutt, curatore di ChainLetter, newsletter del MIT sull’argomento, dà questa definizione
Una blockchain è essenzialmente un libro mastro contabile condiviso che utilizza la crittografia e una rete di computer per tracciare le risorse e proteggere il registro dalla manomissione.
Mi sembra una buona fotografia ma alcuni potrebbero contestare il mancato accenno alla caratteristica “disintermediante”.
Una delle ragioni di questa ambiguità di fondo è il fatto che la blockchain è, più che una tecnologia, una “confederazione” di tecnologie, algoritmi, strutture dati, funzioni matematiche: internet, reti P2P, database, funzioni hash, crittografia a chiave pubblica-privata, meccanismi di consenso, alberi di Merkle e via dicendo.
Se si ripercorre all’indietro la storia partendo dal 2008, quando il misterioso Satoshi Nakamoto diffuse il white paper che sancì la nascita dei Bitcoin, si può notare come l’idea delle criptovalute e quindi della blockchain andò maturando nel contesto del movimento cypherpunk, che faceva della battaglia per la privacy e dell’anonimato un caposaldo contro il nascente grande fratello digitale. Quest’atmosfera creativa ma anarchica e non strutturata si ripercuote ancora oggi nel mondo delle “catene di blocchi”.
Un altro fattore che crea fraintendimenti è proprio l’associazione — peraltro naturale — tra blockchain e crittovalute. Nell’immaginario collettivo le due cose sono strettamente unite e, anzi, le seconde “nascondono” le prime o, peggio, le associano con la cattiva fama che, meritata o meno, bitcoin e i suoi fratelli (o sorelle) si portano dietro.
Una fonte di disambiguazione importante è la (mancata) distinzione tra blockchain pubbliche (permissionless) e private (permissioned).
Qui si ha una netta biforcazione, un fork visto che siamo in tema: si sta cominciando ad affermare la convinzione che le blockchain private non siano, semplicemente, blockchain. Forse non sono solo un database distribuito con altro nome ma, essendo necessariamente controllate da qualcuno che ne determina natura e privilegi d’accesso, vengono sempre più viste come Distributed Ledger Technologies (DLT); niente miners, nessuna proof of work, meccanismo di consenso semplificato e riservato a particolari nodi validatori. E di questi nodi, all’interno di una business network, ci si deve fidare, altro che trustless.
Potrebbe essere una buona opzione questa differenziazione terminologica se non fosse che in altri contesti si fa la distinzione tra DLT pubbliche e private…
Non è finita. Le stesse caratteristiche chiave delle blockchain possono esser messe in discussione.
La decentralizzazione, anche di quelle pubbliche, può essere un punto contestabile: i creatori e la comunità di sviluppatori che ruota attorno a una blockchain non può non avere un potere maggiore di quello di un semplice utente. Senza parlare delle blockchain/crittovalute “di Stato”, come il “petro” venezuelano gestito da un governo che non è un fulgido esempio di democrazia.
La garanzia di anonimato (di una blockchain pubblica) è visto come un dogma, più dai neofiti che dai veri esperti; è noto che nelle blockchain pubbliche si parla di “pseudoanonimato”, visto che le tracce che un utente lascia appena al di fuori dell’ambiente “protetto” sono utilizzabili per risalire alla sua identità in maniera più o meno facile.
Si potrebbe andare avanti.
Esistono anche altre problematiche legate alle definizioni. Siamo alla vigilia di una stretta regolamentativa nel settore da parte di molti paesi: già si corre il rischio che le norme siano diverse da stato a stato, il che per un sistema decentralizzato distribuito a livello globale non è il massimo. Se poi ognuno adottasse definizioni diverse ci sarebbe il caos. E visto che abbiamo accennato al tema della trans-nazionalità, i dati che vengono conservati in una blockchain dovrebbero sottostare a diverse legislazioni riguardo il trattamento dei dati: come ci si regolerà (appunto…)?
Creare una definizione globalmente accettata deve essere un obbiettivo appoggiato anche dagli stessi block-sostenitori, magari forzando la loro natura anarco-capitalista o tecno-socialista.
Nell’articolo di Verge si ricorda che l’International Organization for Standardization sta lavorando a una definizione standard che potrebbe venire alla luce almeno tra 18 mesi. Potrebbe essere un punto di svolta e un’occasione di chiarezza.