La trasformazione che internet, le tecnologie dell’informazione e i dispositivi mobili stanno portando a livello economico è una rivoluzione o una semplice evoluzione del modello capitalistico imperante da quasi due secoli?
Nel suo libro “Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web.” (Luiss University Press, 2017) Nick Srnicek, giovane scrittore, esperto di economia e creatore, insieme a Alex Williams, del #Accelerate Manifesto, propende per la seconda ipotesi: il post-capitalismo non è ancora iniziato e l’esplosione della sharing economy, o meglio della “platform economy” di cui abbiamo parlato qualche mese fa, rappresenta solo un nuovo volto di un sistema economico ultraliberista sempre in grado di reinventare se stesso.
La tesi di Srnieck è che la crisi del comparto manifatturiero degli anni ’60 ha costretto le imprese a colonizzare, negli anni seguenti, il nascente territorio digitale: uno spazio “vergine” — anche perché pensato originariamente non a scopo di lucro -come quello di Internet e del web. L’obbiettivo era estrarre un nuovo “minerale” e utilizzarlo come fonte di profitti: questa pietra preziosa erano, sono e sempre più saranno i dati. E gli utenti sono i minatori, sfruttati inconsapevolmente o quasi.
Questa scelta ha comportato uno spostamento dalle materie prime e dai beni fisici alle risorse e ai prodotti immateriali: contenuto culturale, conoscenza, emozioni e servizi; vi è stata inoltre una congiuntura economica — la politica monetaria accomodante iniziata a metà degli anni ’90 — che ha creato un’ampia disponibilità di liquidità da poter investire proprio nel settore ITC, quello in più rapida crescita. Questa mole di investimenti ha anche permesso di finanziare un modello del tipo “crescita prima dei profitti”.
Il cammino, intervallato dalla bolla delle dot com del 2000 e dalla crisi globale del 2008, ha portato alla nascita della “platform economy”: le piattaforme si sono rivelate il mezzo più efficace per manipolare, estrarre, analizzare e utilizzare le quantità di dati sempre più grandi che si stavano memorizzando.
Scrive Srnieck:
Le piattaforme, in sintesi, sono un nuovo tipo di azienda; sono caratterizzate dal loro fornire l’infrastruttura necessaria a mediare tra diversi gruppi di utenti, mostrando tendenze monopolistiche spinte da effetti di rete, utilizzando sovvenzioni incrociate per attrarre gruppi di utenti differenti e usando un’architettura di base che regola le possibilità di interazione.
Non bisogna inoltre dimenticare che, sebbene sconosciute al grande pubblico, si stanno affermando anche piattaforme industriali, un’infrastruttura digitale che collega sensori e attuatori, fabbriche e fornitori, produttori e consumatori, software e hardware.
Se pensiamo a società come Uber e AirBnB tendiamo a considerarle “virtuali”, in pratica senza asset, ma esse possiedono il bene più importante, la piattaforma software e sottostante sistema di analisi dei dati.
Le società più grandi, come Google, stanno viceversa investendo enormi quantità di denaro in infrastrutture fisiche, come data center e cavi per la trasmissione dati, in acquisizione di altre società e in generale per raggiungere e mantenere uno status monopolistico ai danni dei competitori. Nulla di nuovo sotto il sole, insomma. Come aggravante per Srnieck c’è il fatto che
a tutti gli effetti, il mercato del lavoro tradizionale che si avvicina di più alla piattaforma lean è antico e a bassissima densità di tecnologia: il mercato dei braccianti — lavoratori agricoli, portuali, e altri che percepiscono un salario ridotto — che si presentano in un certo posto al mattino con la speranza di trovare un impiego per quel giorno. Uno strumento di sopravvivenza è ora commercializzato da Silicon Valley come uno strumento di liberazione.
Nelle pagine finali Srnieck indica una possibile soluzione per arginare lo strapotere degli unicorni “vecchi” e nuovi: istituire una sorta di tecno-socialismo, in cui gli stati creano e gestiscono le loro piattaforme erogando ai cittadini i servizi ad esse connesse come fossero servizi pubblici.
La parte più interessante del libro rimane comunque l’analisi che l’autore fa per sostenere le sue tesi; anche se sintetica offre diversi spunti di riflessione osservando la trasformazione digitale da un punto di vista economico (quasi marxista) e declassando a marketing di un capitalismo trasformista gli ideali di condivisione, partecipazione e democratizzazione propugnati da società come Facebook e Google.